Didone

Illa gravis oculos conata attollere rursus
deficit; infixum stridit sub pectore vulnus.
Ter sese attollens cubitoque adnixa levavit,
ter revoluta toro est oculisque errantibus alto
quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta.
Tum Iuno omnipotens longum miserata dolorem
difficilisque obitus Irim demisit Olympo
quae luctantem animam nexosque resolveret artus.
Nam quia nec fato merita nec morte peribat,
sed misera ante diem subitoque accensa furore,
nondum illi flavum Proserpina vertice crinem
abstulerat Stygioque caput damnaverat Orco.
Ergo Iris croceis per caelum roscida pennis
mille trahens varios adverso sole colores
devolat et supra caput astitit. ‘hunc ego Diti
sacrum iussa fero teque isto corpore solvo’:
Sic ait et dextra crinem secat, omnis et una
dilapsus calor atque in ventos vita recessit.

Ella, temendo di aprire le pupille pesanti, di nuovo
viene meno, e fonda stride in petto la ferita.
Tre volte, puntandosi sul gomito, sollevandosi si alzò,
tre volte ricadde sul letto e con occhi smarriti nell’alto cielo
cercò la luce e trovandola gemette.
Allora l’onnipotente Giunone, impietosita del lungo patire
E della morte faticosa, inviò Iris giù dall’Olimpo,
che liberasse la sua anima in lotta e sciogliesse i duri lacci.
Infatti, poiché non moriva per il fato e per una morte dovuta,
ma moriva miseramente anzitempo, bruciata da improvvisa pazzia,
Proserpina non aveva ancora strappato dal suo capo
il biondo capello né donato la sua vita all’Orco stigio.
Dunque Iris rugiadosa, in cielo con le ali dorate
traendo mille svariati colori dal sole in faccia,
vola giù e si ferma sopra il suo capo: “Questo io a Dite
dono e consacro , secondo l’ordine, e ti sciolgo da questo corpo”.
Così dice e recide il capello con la destra: d’un tratto
Svanì ogni calore e la vita si sperse nel vento.

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